TIFERNO COMICS 2019

"Dino Battaglia - La perfezione del grigio tra sacro e profano"

Dino Battaglia: scrivono di lui

foto battaglia


DINO BATTAGLIA - TRA SACRO E PROFANO

Dino Battaglia era un genio. Era simpatico e dotato di una raffinata ironia. Era un pittore vero, che ha espresso il suo talento pittorico attraverso il fumetto.

Era colto e nello stesso tempo un acuto osservatore del suo tempo. Non parlava mai per frasi comuni, usava un linguaggio semplice e allo stesso tempo erudito. Insomma, conversare con lui era un vero piacere.

La prima volta che l’ho incontrato è stato nella sua casa a Milano, mi ha mandato Hugo Pratt, dicendomi “se vuoi ascoltare una vera opinione su di me, vai da un mio nemico”, e mi mandò da Dino Battaglia, il quale mi accolse con perplessità visto che lui e Hugo Pratt non si parlavano da qualche tempo.

Mi chiese: “Non è uno scherzo??”. Io ribadii che mi mandava proprio Pratt. “Si accomodi allora”, mi disse e lodò il talento artistico di Pratt mettendo in evidenza la sua forza pittorica e letteraria. In quella occasione gli dissi che per Hugo Pratt Dino Battaglia era il più grande disegnatore di indiani d’America che avesse mai visto nella sua vita.

Lo incontrai ancora più volte per realizzare la prima monografia uscita su di lui, che ho realizzato con Mauro Paganelli degli Editori del Grifo. Era un signore gentile, un padrone di casa accogliente, ed era un vero piacere conversare il pomeriggio, davanti ad una buona tazza di the, con lui e la moglie Laura, che era anche la sua colorista. Mi è capitato alcune volte di vederlo lavorare, di vedere come faceva i suoi celeberrimi chiaroscuri, con dei batuffoli di cotone, mentre la moglie gli leggeva i classici della letteratura. La casa di Dino Battaglia era di una eleganza sobria, ma ricordo le vetrine che custodivano tutti i soldatini che lui aveva creato.

Fu lui a farmi apprezzare i grandi scrittori di cui era un erudito cultore, come Carolus Cergoly, Robert Walser e Philip Roth.

Sono sempre rimasto colpito dal fatto che lui, che così straordinariamente aveva illustrato i racconti di Edgar Allan Poe e Maupassant, disegnasse con la stessa intensità e la stessa grazia le vite dei santi. Questo era il segno della sua grande sapienza; aveva capito che due punti letterariamente estremi potevano essere in realtà così vicini.

Per me Dino Battaglia è stato il Luchino Visconti del fumetto italiano, un artista unico e inarrivabile.

Non gli ho mai visto sbagliare un disegno, non l’ho mai visto fare compromessi con la serialità, il suo fumetto è arte allo stato puro, e in una storia dell’arte degna di questo nome le sue opere meriterebbero un capitolo di grande rilievo.

Dino Battaglia ha saputo raccontare la vita con la curiosità che aveva negli occhi e con i migliori sentimenti che guidano e orchestrano l’avventura umana.

Per tutto quello che ho scritto, ogni suo volume a fumetti per me è un capolavoro.

Vincenzo Mollica


 

Battaglia in formato kolossal a Città di Castello

Forse la storia del fumetto sta definitivamente restituendo a Dino Battaglia ciò di cui in vita fu un po’ avara con lui, ossia quell’apprezzamento che peraltro lui personalmente non cercò mai (troppo “superiore” a certi aspetti umani) ma che genericamente anche la critica gliene fu parsimoniosa. Lo ritenne troppo raffinato e quindi lo confinò nella turris eburnea di eccelso illustratore, ma non corrispondente appieno alla considerazione di fumettista. Ma forse, col tempo, la forza interna della sua arte ha avuto la meglio.

Le esposizioni delle sue opere hanno indotto, specie negli anni più recenti, a una sempre più accorta attenzione su di lui. E la mostra di questo 2019 a Città di Castello sarà forse in grado di costituire per lui un giro di boa definitivo. In effetti, un corpus di 400 opere ha la possibilità di evidenziare i dettagli di un percorso artistico in sistematica evoluzione, per lo meno non frequente: specie, come nel suo caso, nel puntare a una compiutezza artistica. Ciò è finalmente constatabile oggi, quando il fumetto ha finalmente acquisito quello status per cui esso è stato intuitivamente definito (già molti anni fa) Nona Arte. E come in tutte le arti, si possono ormai individuare nella sua storia la presenza di personalità originali, capaci di costituire sul piano visuale dei pilastri espressivi ai quali conferire l’attributo di classici.

Vale la pena di ricordare che uno dei più autorevoli intellettuali del Novecento, l’argentino Jorge Luis Borges, ha affermato che in letteratura “i classici sono opere che più generazioni tornano a frequentare con identico gusto per ragioni diverse”. Ebbene, anche i fumetti, pur esprimendosi tramite modalità differenti, “sono” letteratura. Ormai quasi nessuno dubita più della loro nobiltà letteraria (non si deve dimenticare, per esempio, quanto tenacemente si è battuto Hugo Pratt nei suoi ultimi anni di vita perché all’intero medium fumetto spettasse proprio il concetto di letteratura disegnata). Sicché il tempo evidenzia che, nell’ottica espressa da Borges, certe opere sono indubbiamente dei classici.

Sicuramente allora, vi rientrano le opere di Dino Battaglia. Per cui egli può essere ri-considerato alla luce di prospettive revisionistiche, per le quali magari a suo tempo egli era troppo border line per venire incluso: le sue sofisticate tecniche esecutive, per esempio, lo assimilavano troppo a illustratori dalla personalità originale; le sue strutture inconsuete nella successione delle vignette e nel conseguente montaggio della pagina erano magari troppo anticipatrici per il suo tempo; o certa sua lentezza narrativa, troppo compiaciuta nel privilegiare la parte grafica o l’esito visuale, poteva ai suoi tempi far sembrare i suoi fumetti troppo lenti e contemplativi per essere considerati tali a tutti gli effetti. Tutto ciò poteva alimentare la predetta impressione che lui fosse più un contemplativo illustratore che un compiuto fumettista. Ci voleva l’avvento del graphic novel per allargare – e di molto – la concezione del fumetto. Il graphic novel ne ha liberato le possibilità e sta dimostrando come Dino Battaglia, lungi dall’essere un illustratore, benché raffinato, avesse al contrario intuitivamente una concezione meno convenzionale del medium fumetto.

Di Battaglia si occupano oggi con cura filologica case editrici quali per esempio la Mosquito in Francia; e in Italia, dal recente 2016, la NPE ha intrapreso la faraonica realizzazione della sua opera omnia. Benché di nicchia, col loro apporto esse hanno acquisito autorevolezza, hanno quindi la forza culturale di continuare a mantenere alta l’attenzione su di lui e offrono di continuo l’opportunità di ri-studiarlo. Analoga occasione offre la mostra di Città di Castello, non solo con l’inconsueta estensione della sua durata (un mese e mezzo di apertura al pubblico, dal 14 settembre al 4 novembre 2019) ma specialmente con l’imponente quantità de materiali esposti: la più completa gamma di opere di Battaglia mai finora realizzata.

Sarebbe difficile apprezzare il senso dell’itinerario artistico percorso da Battaglia senza metterlo a confronto con i momenti nodali di una sua pur scheletrica biografia. Lo sguardo biografico è infatti in grado di farci rilevare come, nelle sue opere evoluto – lentamente ma sistematicamente – nella ricerca di quei risultati che gli interessavano e che, come constatiamo ancora oggi, costituiscono sul piano grafico, quello figurativo, quello raffinatamente espressivo, eccetera, dei punti d’arrivo inimitabili e di livello assoluto.

Sotto il segno del Leone, Battaglia nacque a Venezia il 1° agosto 1923 ed ebbe una vita artistica in certo senso segnata. Fin dal 1945 collaborò con quei geniacci denominati poi – a livello di culto – “il gruppo dell’Asso di Picche” (Hugo Pratt, Alberto Ongaro, Mario Faustinelli, Ivo Pavone), chiamato in seguito in Argentina, dove rinsanguò e vivificò il fumetto autoctono. Ma Battaglia preferì non andare con loro, rimase in Italia dove, specie negli anni Cinquanta, lavorò nell’équipe di Pecos Bill della Mondadori e disegnò per settimanali come Il Vittorioso o il Corriere dei Piccoli oltre che per le edizioni Bonelli.

Però, colto e raffinato segno di fuoco zodiacale, Battaglia sentì ben presto la necessità di sperimentare nel fumetto tecniche grafiche per allora inusitate che, dopo il 1965, con la nascita della critica fumettistica, egli concretizzò in un primo, precoce esempio della sua capacità di nobilitare il fumetto stesso: esordì con un sorprendente Moby Dick, uscito nel 1967 sulla rivista Sgt. Kirk. Un raffinato approccio letterario, poi via via approfondito, specie sulla rivista Linus, con trasposizioni da Poe o da Maupassant, da Lovecraft e da molti altri. Esemplare La nube purpurea, da M.P. Shiel, sostanziato da straordinarie immagini di una Venezia morbosamente in rovina.

In questa sua consapevole ansia di perfezione, nel 1971 Battaglia fu invitato anche a collaborare al Messaggero dei Ragazzi (e, chissà, per un occulto disegno del destino, consapevole che “le vie del signore sono infinite”, visti i successivi risultati). Qui il direttore padre Giovanni Colasanti, uomo di grande cultura e di notevole diplomazia, gli chiese di illustrare vite di santi, una tendenza che, dopo un San Giorgio, un San Cristoforo e un Sant’Antonio sfociò nel 1974 in un Fioretti si San Francesco a più puntate. Le quali furono raccolte poi in volume, che configura un autentico capolavoro: dove Battaglia flesse a risultati fumettistici suggestioni provenienti dal cinema di Liliana Cavani e Franco Zeffirelli da moduli della pittura italiana del Duecento, conseguendo esiti di raffinata eleganza.

Da parametri del genere, fra l’altro, si comprende anche come Battaglia sia stato – pur a livello inconsapevole, e come si è già accennato – un precursore degli attuali graphic novel. E comunque come fosse un autore singolare (insieme alla moglie Laura, sistematica collaboratrice ai testi e a volte anche ai colori), artisticamente inimitabile.

A proposito di singolarità, lo riguarda una faccenda dai curiosi risvolti esoterici. Lui così lucidamente laico eppure così intellettualmente colto da recepire ogni stimolo (tanto da coltivare una raffinata cultura anche sul piano religioso), fu poi in maniera apparentemente contraddittoria rispettoso dei santi e in particolare del sopra citato Frate Francesco. Il quale forse lo ricambiò dando avvio alla sua notorietà internazionale: nel 1975, l’anno della pubblicazione in volume di Frate Francesco e i suoi Fioretti, quando Battaglia fu premiato ad Angoulême come “Miglior disegnatore straniero”. Ebbene, fra il disegnatore e questo santo doveva esserci un cabalistico fil rouge, perché Battaglia si spense (prematuramente) a Milano nel 1983, precisamente il 4 ottobre: ossia il giorno in cui l’Italia celebra questo santo, così laicamente “umano”, come proprio patrono. Un emblematico “segno”?, una casuale bizzarria?, una coincidenza programmata dal destino? Libero chiunque di interpretarla come vuole, però è un dato di fatto.

Naturalmente, come ogni mostra che si rispetti, anche questa di Città di Castello è dotata del corrispondente Catalogo. Ma per un gigante come Dino Battaglia, ugualmente ragguardevole. E, visti gli interventi di vari autori che esaminano l’artista sotto differenti profili, esso merita di essere considerato una consistente Monografia; La perfezione del grigio tra sacro e profano. Fra la sua struttura e quella della mostra c’è una stretta corrispondenza contenutistica (v. il box qui a lato), per cui anche la Monografia può essere considerata lo studio a oggi più autorevole e consistente su Dino Battaglia, benché tanti aspetti della sua arte si prestino a ulteriori approfondimenti. Lo studio dei Maestri, si sa, non finisce mai...

Coi suoi ormai 17 anni di vita, la mostra Tiferno Comics di Città di Castello si è guadagnata una reputazione di tutto rispetto, grazie alla sontuosità delle sue esposizioni: da autori come Manara, Giardino, Cavazzano o Jacovitti; o personaggi quali Tex, Dylan Dog, Wheeling, Batman e altri. La personale del 2019, dedicata a Dino Battaglia, si articola in una mostra di 400 originali, parte dei quali mai finora esposti. Anche perché oltre alle ammirevoli tavole “partecipano” materiali insoliti: per esempio i soldatini, dei quali Battaglia, appassionatissimo, fabbricò a mano molti modellini di tutte le epoche, conservati in una bacheca, ricostruita uguale nella mostra tifernate; oppure anche schizzi preparatori, disegni alternativi e materiali del genere, capaci di evidenziare come egli preparava scrupolosamente il proprio lavoro.

Nel suo insieme, tutto ciò è capace di dare una sostanziosa idea panoramica della carriera e dell’evoluzione dell’artista veneziano (naturalizzato milanese). Anche perché la sede dell’esposizione, il Palazzo Vitelli, sede tradizionale della mostra, si presta, grazie ai suoi capaci saloni, a una serie di focalizzazioni monografiche dei momenti della carriera, o dei temi delle opere e corrispondenti stili, in maniera da costituire delle vere e proprie zone monografiche dedicate all’artista.

Data la sua singolarità, Battaglia non ha avuto allievi né emuli. Ma il disegnatore Corrado Roi lo ha scelto come maestro ideale. Collaboratore da decenni delle edizioni Bonelli e ben noto ai fan della casa editrice (dove a volte è definito “maestro delle ombre”), Roi ricorda fortemente certe caratteristiche dello stile di Battaglia. Tanto che a lui, in occasione di questa mostra, il curatore Piero Alligo ha affidato (con l’approvazione del figlio ed erede Giuseppe Battaglia) l’importante compito di portare a termine il terzo episodio della serie L’Ispettore Coke, rimasto incompiuto per la morte dell’artista. Una delle stanze di Palazzo Vitelli è dunque dedicata a queste tavole, insieme a quelle della miniserie UT, un altro lavoro disegnato e ideato da Roi (sceneggiato da Paola Barbato) e dedicato alla coinvolgente serie fantasy, per il filone denominato xenofiction.                                                          

Gianni Brunoro