Moby Dick, la balena bianca.

Nel 1810 una tremenda balena imperversava nel mare del Cile, nei pressi dell'isola di Mocha; battezzata "Mocha Dick" dai marinai, continuò a seminare morte fra i suoi persecutori fino al 1859, anno in cui cedette agli arpioni di una baleniera svedese.

Molto probabilmente Melville prese spunto da questo fatto per scrivere il suo più famoso romanzo: Moby Dyck (1851).

Non si può considerarlo semplicemente un racconto d'avventura, è sicuramente di più: un trattato filosofico, un monologo, il dialogo interiore di un marinaio che per tre lunghi anni è solo, con i suoi compagni, sulle sperdute acque che formano gli oceani del nostro globo; un opera oratoria, con ispirazioni bibliche e Shakespiriane; un diario di bordo ... ma sopratutto è l'attesa. L'attesa di un evento, di qualcosa di grande, immenso, sconosciuto e desiderato.

mobydick

Melville si sofferma a parlarci della nave, il Pequod, e dei suoi marinai. Ci descrive la struttura del vascello, a partire dalla poppa fino alla prua. Dalla "testa d'albero" fino alla "raffineria". Ci racconta la sua storia e quella di tutte le baleniere. Ci insegna a distinguere una balena "Franca" da un "Capodoglio". Ne fa una sezione, e da abile chirurgo ci illustra la loro anatomia. La balena nell'arte, nella pittura, nelle leggi della marina ed in quelle della cucina. Tutto è una preparazione. Forse una metafora della vita stessa, della corsa dell'uomo verso i suoi desideri, verso l'irraggiungibile. La frenesia contro il mondo e la noia, il desiderio d'avventura, di visitare posti nuovi, che fa correre l'uomo sull'acqua, sulle orme di questo "'grande fantasma incappucciato, come una collina di neve nell'aria".

Viviamo la lunga ricerca di Achab, che disperato rincorre per i mari l'atavico nemico. Passiamo accanto a lui lunghi, interminabili giorni. Ma nello stesso tempo ne apprezziamo la bellezza, ci crogioliamo nel sole e nel silenzio delle onde deserte. Un albatro vola alto, lontano, minuscolo puntino nero nel cielo.

Non ci si può tirare indietro, non è una semplice partita, c'è in gioco la vita, anzi, di più, il significato della vita.

"Così la demenza dell'uomo è la sanità del cielo, e allontanandosi da ogni ragione mortale, l'uomo perviene alla fine a quel pensiero celeste che per la ragione è assurdo e delirante; e sia bene o male, si sente allora inflessibile e indifferente come il suo Dio".

Come per il carcerato vi è un muro da forzare per evadere, così per Achab, per tutti i suoi marinai, per Ismaele, per Stubb, Starbuck, Fedallah, Queequeg e gli altri, la balena bianca era divenuto quel muro. Una prova da superare, qualsiasi cosa si nascondesse al di là di essa.

La nave partita da Nantucket erra alla caccia della sua preda. Le compagne baleniere che incontra sulla sua rotta gli danno notizie contrastanti. Sembra quasi che quest'animale abbia il dono dell'ubiquità, se non quello dell'immortalità. Ma i nostri non si arrendono. Continuano la sfida, imperterriti, contro ogni razionalità, superstizione, magia, diceria o verità, fino al giorno che da tempi remoti il destino aveva segnato;

"Era un pomeriggio annuvolato, afoso; i marinai si aggiravano pigri sui ponti, o gettavano occhiate vacanti sul mare colore di piombo. Queequeg e io eravamo occupati a intrecciare con flemma ciò che si chiama un paglietto a sciabola per un rafforzo aggiuntivo alla nostra lancia. Così quieta e sommessa, eppure un certo senso presago era tutta la scena, e tale ipnotico incanto covava nell'aria, che ogni marinaio muto pareva dissolto nel proprio Io invisibile. (...) Ma d'improvviso, mentre (Achab) aguzzava gli occhi sempre più in fondo agli abissi, vide laggiù un vivido punto bianco, non più grosso di una candida donnola che saliva con prodigiosa rapidità e salendo ingrandiva, finché si voltò e allora sì videro chiare due lunghe file storte di denti bianchi, scintillanti, che affioravano dall'abisso impenetrabile. Era la bocca aperta e la mandibola di Moby Dick; il corpo immenso, un ombra, ancora mezzo confuso con l'azzurro del mare. (...) Di colpo l'acqua attorno si gonfiò lenta in ampi circoli, poi salì fulminea, come sfuggendo ai lati di un monte di ghiaccio sommerso che s'alzi rapido a galla. Si udì un sordo rombo, un brontolo sotterraneo, e poi tutti tennero il fiato: un groviglio di cavi spezzati e ramponi e lance; una forma immensa si rovesciò in alto e crollante di nebbia, si librò un attimo nell'aria iridata, poi crollò sprofondando nell'abisso. Schizzate in aria per trenta piedi, le acque splendettero un istante come fasci di fontane, poi rompendosi scesero in un rovescio dì faville, lasciando la superfìcie all'intorno schiumante come latte fresco attorno al tronco marmoreo della balena".

La sua fronte grinzosa, la gobba a piramide, la mascella deforme, gli arpioni piantati nella schiena, simbolo di mille battaglie vittoriose, la grandezza eccezionale, il colore luminoso. Il bianco, spesso usato per indicare qualcosa di sacro e spirituale, ha in sé però un misterioso sentimento di paura, come se nascondesse qualcosa di terribile, in particolare se unito ad una bestia già di per se feroce. Un orso, uno squalo, un elefante ... una balena. I morti ed i fantasmi sono bianchi. Colore e non colore, somma e assenza di colori.

Di fronte al destino, alla vita o alla morte, l'uomo nulla può fare. Gli abissi, si aprirono ad accogliere il Pequod, nell'Ade di tutti coloro che avevano osato affrontare ciò che non è permesso. Stolti temerari che andate a cercare?

Ma d'altronde che può fare l'uomo se non cercare una risposta a ciò che neppure sa formulare in una domanda?

La più grande interpretazione a livello fumettistico rimane quella che ne fece Dino Battaglia nel 1967 sulle pagine della rivista Sgt. Kirk nel 1967, riproposta in seguito nel 1974 sulla rivista Alterlinus. La magnifica storia sarà raccolta anche in volume nel 1986 da Editori del Grifo come primo numero della collana La nuova mongolfiera e nel 1998 dall'editore Le Mani come primo numero della collana Le Mani Comics.