Il linguaggio è un atto di creatività

Il linguaggio è un atto di creatività. Il linguaggio è il bisogno dell'uomo di esprimere il suo grido di libertà.

Non sappiamo chi, non sappiamo come né perché, non sappiamo neppure precisamente quando, ma tanti, tanti anni fa, i nostri antenati cominciarono a tracciare dei segni sulla sabbia, a disporre delle macchie sulle pareti delle grotte e diedero a quei segni un significato che essi non avevano. Quelle forme non erano più macchie casuali ma diventavano magicamente un viso, un uomo, un animale: disegni.

Ciò che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi, ciò che ha permesso di evolverci, è la nostra capacità di dare agli oggetti un significato che essi non hanno nella realtà, di astrarre e in questo modo inventare. L'uomo primitivo probabilmente si stupiva di questa sua dote e, non sapendo come spiegarla, la considerava una sorta di magia. Assumeva ai suoi occhi un significato spirituale. Tutto ciò che lo circondava, a cui non sapeva dare una spiegazione, era magico: il fuoco, il fulmine, il giorno e la notte, la vita e la morte. Chi dipinse nelle grotte di Lascaux, Chauvet e Altamira, chi incise i sassi dei Camuni nelle valli della val Camonica, era probabilmente anche lo stregone del clan, l'uomo della medicina, colui che, attraverso erbe e riti propiziatori, poteva salvare il clan da malattie e tragedie. Era una persona a cui veniva riconosciuto un ruolo molto particolare, quasi un potere, lo stesso che noi oggi riconosciamo all'artista. Teorie più recenti immaginano che quel ruolo fosse di una donna, perché era lei a rimanere all'accampamento ad occuparsi dei figli, mentre l'uomo, fisicamente più forte, si occupava di cacciare.

lascaux1

Ma l'arte come si pone nei confronti del linguaggio? Ancora oggi la nostra società riconosce alla figura dell'artista un particolare ruolo salvifico, catartico.

È sempre stato così? Non proprio. Se analizziamo la nostra storia ricordiamo i nomi degli antichi scultori greci: Policleto, Mirone, Prassitele, Fidia. Dei pittori è conservato pochissimo. Apelle ci viene descritto da Plinio quasi come una leggenda, ma delle sue opere c'è rimasto solo un lontano ricordo. Sono rimaste le opere dei ceramisti, come: Exechia, Clizia, Ergotimo, Eufronio, ecc… È quasi un paradosso perché gli scultori probabilmente erano i meno importanti fra gli artisti greci. Platone aveva indicato una distinzione fra le arti più nobili e quelle più basse in base al loro rapporto con la materia. La scultura, di cui noi ammiriamo tanti bellissimi esempi, era considerata dal grande filosofo come l'arte più bassa, perché inevitabilmente legata alla pietra, per lavorare la quale l'artista deve faticare, sudare, sporcarsi. Poi viene la pittura, necessariamente collegata alla sostanza materiale, quella pittorica, ma già più libera, perché della fisicità crea solo un'illusione bidimensionale, più o meno realistica. La musica è costituita da suoni che si liberano leggeri nell'aria, ma è sempre uno strumento concreto che la deve generare. Nella posizione più alta, per Platone, vi è la filosofia: puro pensiero. Essa non necessita neppure della scrittura per essere trasmessa, visto che la forma orale non diviene documento, Storia, ma permette di modificare continuamente il pensiero, mutarlo, adattarlo, evolverlo.

Molto più tardi, nel periodo medievale, l'artista veniva considerato poco più che un bravo artigiano specializzato. Pochi i nomi rimasti, più che altro quando i secoli si avvicinano a noi permettendoci di avere maggiore documentazione: Wiligelmo a Modena, Vuolvinio a Milano, Antelami a Parma e pochi altri. Con lo sviluppo dei commerci l'arte si riappropria del suo valore estetico ed economico ed ecco che i nomi tornano a farsi ricordare: Giotto, Cimabue, Simone Martini, Andrea Pisano, ecc.

Solo con il Rinascimento l'artista riconquista lentamente un'autonomia intellettuale e creativa. Alla creazione di un'opera d'arte concorreranno varie figure: il committente; le arti o corporazioni, che solitamente finanziavano l'opera; l'artista che la realizzava e l'iconografo (un intellettuale, spesso appartenente al clero più colto, che indicava temi e simboli su cui strutturare il racconto pittorico, scultoreo o architettonico). Più agli artisti veniva riconosciuto un ruolo intellettuale, più essi diventavano iconografi delle loro opere, registi del loro stesso immaginario. Dalle prime innovazioni di Masaccio e Donatello, fino alle grandi figure di Michelangelo e Leonardo alla fine del secolo, che si poterono permettere (non senza qualche contrasto e polemica) di rappresentare temi della tradizione cristiana attraverso un'interpretazione molto personale. Nella sua ultima cena, ad esempio, Leonardo non dipinse il momento tradizionale in cui Cristo, figlio di Dio, spezza il pane simbolo dell’eucarestia. Piuttosto l’artista sceglielse una situazione più intima e umana: quando Gesù confida ai suoi amici più cari (gli apostoli) che uno di loro di lì a poco lo avrebbe tradito. Leonardo vuole raccontare di Gesù la parte più umana, fragile e bisognosa di conforto. Su quella parete paradossalmente, nel momento in cui Gesù ha bisogno della vicinanza dei suoi amici (perché sa cosa gli sta per accadere e ne ha paura), questi, senza rendersene conto, lo abbandonano. Non capendo ciò che il loro maestro gli sta confidando, si allontanano da lui raggruppandosi in gruppi di tre, parlottando, confabulando, chiacchierando. E lo lasciano solo.

ultima cena

Articolo di Marco Feo